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Il racconto sulla distruzione dell’Abbazia: dal vello volante al tocco dei lupi
“…E le stesse donne narrano di un tesoro nascosto
da quegli eremiti
prima di abbandonare l’abbazia, di fretta,
in una gelida notte d’inverno,
scacciati dagli stessi villani,
che lavarono col sangue
l’onta di donne disonorate
passando con tamburi in mezzo ai lupi”.
(Da “Gratteri da Crater, coppa Graal: grezzo diamante nella concava roccia” di Marco Fragale)
Quella sulla distruzione del monastero di San Giorgio in Gratteri è sicuramente una di quelle storie ancora poco conosciute, le cui motivazioni si alimentano con fantasiose leggende e racconti di popolo che vengono tramandati oralmente da generazioni.
Come già riportato in passato da studiosi locali, gli ultimi monaci dell’abbazia di San Giorgio sarebbero stati scacciati dagli stessi abitanti del villaggio per vendicare il disonore di una donna violata appartenente ad una insigne famiglia dei Bonafede intesi Gibbuini per nomignolo (GANCI BATTAGLIA GIUSEPPE, op. cit.).
Tuttavia, sulla fine del monastero, esistono diversi racconti inediti ancora più dettagliati che, negli anni, sono stati raccolti tra i più anziani abitanti di Gratteri. Queste narrazioni, probabilmente, andrebbero ad aggiungere ulteriori tasselli a quella che è da sempre stata considerata una delle storie popolari più suggestive e misteriose di Gratteri, quella della fine del cenobio di San Giorgio.
Si racconta che un tempo, i figli dei ceti più abbienti del villaggio, andassero a studiare presso i religiosi di San Giorgio, i quali insegnavano loro la conoscenza delle arti, delle erbe e delle stelle. Quei discepoli, sin da piccoli, dovevano calzare delle particolari scarpe di cuoio di lupo, “u piedi di lupu” per acquisire da grandi poteri taumaturgici sulle bestie (Giuseppe Cirincione, classe 1918, intervista 2013).
Un giorno, un monaco richiese ad uno dei suoi allievi più avvenenti una ciocca dei capelli della madre dalla lunga chioma rossa, moglie del magnifico Tofanio Giboino. Questa insospettita, decise di inviare al suo posto un ciuffo di pelo di capra reciso da un suo tappeto.
Passati alcuni giorni la donna, mentre batteva quelle pelli, vide il vello sfuggirle dalle mani e volare in direzione dell’Abbazia tra le urla delle incredule comari del quartiere di la Petra.
L’insigne galantuomo, pensando ad un filtro d’amore per possederne la bella sposa di nome Disiata, che tramite ipnosi sarebbe giunta al monastero, decise di mettere fine a quei sortilegi architettando un tranello. Pertanto, insieme ai fratelli della moglie si recarono nel bosco, travestiti con abiti femminili, portando insieme a loro un fantoccio che, posizionato in lontananza sul sentiero, somigliasse ad una donna.
Così, ad un certo punto, mentre attendevano nascosti nei pressi dell’abbazia, videro volare quel pupazzo di paglia verso la rocca denominata di Lìngari, che sovrasta il monastero di San Giorgio, attratto da un potente incantesimo, di uno di quei religiosi ivi posizionato.
Gli uomini a quel punto, uscirono allo scoperto e spararono a quel monaco che, avendoli riconosciuti, in posizione sconcia e con parole oscene, si sarebbe beffato di loro da sopra quella vetta che, dopo quell’episodio, venne rinominata la Rocca del Monaco (Fedele Cirincione, classe 1911, intervista 1995; Vincenzo Sausa, classe 1928, intervista 2020).
Altri informatori raccontano una seconda versione, che vedrebbe protagonisti quei villani insieme ai mastri artigiani del paese. Questi ultimi, infatti, andarono ad incendiare il monastero durante una fredda notte d’inverno, attraversando il bosco armati di fiaccole di ampelodesma e di grossi tamburi percossi a ritmo continuo per spaventare un nutrito branco di lupi (Giacomo Lanza, classe 1909, intervista 1993).
A quel punto i monaci non vedendo altra soluzione, dovettero abbandonare di fretta il loro monastero nascondendo frettolosamente il loro tesoro e annunciando una singolare profezia per ritrovarlo. Sono questi i racconti noti in paese sulla distruzione del cenobio.
Ad ogni modo, per rendere attendibile un racconto popolare tramandato da generazioni bisognerebbe ritrovare riscontro nelle fonti ufficiali dell’epoca che, ahimè, non sono state ancora pervenute. Tuttavia, dalla consultazione dei cinque-seicenteschi Riveli degli abitanti di Gratteri custoditi all’Archivio di Stato di Palermo, si evince che il cognome Giboino, non solo viene attestato a Gratteri almeno fino al secolo XVII, ma apparteneva anche ad un rango di una famiglia nobiliare del piccolo centro madonita:
“Tufanio Giboino capo di casa – rivela una casa in questa terra in la contrada di la Petra confinanti con la casa di Bernardina Lombardo et con la casa di Giovanna Cancila” (Archivio di Stato-Palermo, Riveli Tribunale Real Patrimonio, V. 1166, anno 1584).
“Magnificus Petro Gibbuino (di Thofanio et Antonella), Morganta Vacca (sua moglie) Jacopica (sua figlia), Crispino (suo figlio di misi 9) tiene una casa in dui corpi nella q.ta di Fantina confinanti con la casa di Minico Furia di prezzo di onci 18” (ASP, Riveli Tribunale Real Patrimonio, V. 1169, anno 1607).
Per quanto riguarda invece l’antichissima “tammuriniata” denominata “A tuccàta di lupi“, il rito nasce proprio nel periodo in cui nel bosco di San Giorgio si aggirava ancora un nutrito branco di lupi che spinto dalla fame insediava gli ovili facendo scempio di pecore (Vedasi LANZA ANGELINA, op. cit.).
Per costringere dunque i lupi ad uscire allo scoperto, i cacciatori, nel corso delle loro battute, solevano mandare avanti degli uomini muniti di grossi tamburi, i quali, con un ritmo continuo, disorientavano e spaventavano le prede (SCELSI ISIDORO, op. cit.).
Nonostante la scomparsa di questi animali, sia a causa dell’assidua caccia, sia per gli incendi che distrussero progressivamente quel bosco, queste specie di suonata si è tramandata fino ad oggi e si ripete annualmente per opera dei mastri muratori e carpentieri d Gratteri.
Essi la ripropongono il giovedì successivo al Corpus Domini, ultimo giorno dell’Ottava che è festeggiato dai maestri di mestiere ed è chiamato appunto U Juovi di Mastri (il giovedì dei mastri di mestiere).
Infatti in quel giorno, dalla mattina fino all’imbrunire, un gruppo di giovani esperti nel suono del tamburo, girano per le vie principali del paese e, con una ben ritmata percussione, apportano fra gli abitanti una nota di gaia spensieratezza, che rompe il grigiore e la monotonia che ivi permanentemente regna. Così chi non si ricorda di questa tammurinata, quella mattina si sente dire che è appunto “a tuccata di lupi du juovi dì mastri” (IBIDEM).
Marco Fragale
(Università di Palermo)
Bibliografia:
GANCI BATTAGLIA GIUSEPPE, Cenni storici e tradizionali del Comune di Gratteri, Edizione de La Trazzera, Palermo, 1930.
LANZA ANGELINA, La casa sulla montagna, Domodossola 1941.
SCELSI ISIDORO, Gratteri, storia, cultura, tradizioni, Palermo 1981 – Ristampa 2008.